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Lavorare in canile

  • Immagine del redattore: Eleonora Marziale
    Eleonora Marziale
  • 14 feb 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

Spesso mi capita (in realtà non così spesso, ma dire “a volte” fa meno effetto) che qualcuno mi chieda che lavoro faccio. Tiro un respiro profondo, mi metto su un sorriso e cercando di essere il più concisa possibile, rispondo: “Io? Istruttrice cinofila, lavoro in canile.”

Ora, sono fortemente convinta che il 90% delle persone che me lo chiede non è mai entrate in un canile, non sa nemmeno come sia fatto e figuriamoci immaginare cosa significa lavorarci, ma le risposte che ricevo sono più o meno sempre le stesse e, per l’occasione, le ho divise in quattro categorie.

Un buon 60% si lascia prendere da un entusiasmo che non capisco, mi guarda con occhi carichi di un’emozione che non ho ben chiara e a pieni polmoni si perde in un soliloquio che inizia con: “Ma daaaaai, anche io ho un cane!! Guarda, ti faccio vedere una fotoooo!!”. Ma se alla loro domanda avessi risposto che lavoro in una casa di riposo, mi farebbero vedere le foto dei loro amabili nonni? Io non credo.

Un abbondante 39% si divide tra chi si lascia prendere da uno sconforto incontenibile (che, per inciso, comunque non comprendo) ed esordiscono: “poveriniiiiii come fai, io non ci posso entrare in canile sto troppo male!!!!”. Lecito certo, infatti in canile ci entro io e non te.

Poi c’è chi non crede nemmeno che sia un lavoro, si immagina che io passi il tempo a coccolare i cagnolini e si perde in esagerati apprezzamenti su come sia onorevole fare la volontaria: “No, non hai capito, percepisco uno stipendio, lo faccio per lavoro”. Al che, finisce la magia.

C’è chi ti guarda come se fossi una divinità “Mio dio, io conoscevo un’addestratrice, lo sai?!?!”. No, non lo sapevo ma grazie di avermelo detto, ora dormirò sogni tranquilli sapendo di non essere l’unica al mondo. Che poi non sono neanche un’addestratrice, ma va beh, fiato sprecato.

E poi ci sono i più belli. Quelli che ti guardano bene, ti scrutano, ti osservano, provano a capire. Niente, tutto inutile; vedi che gli occhi escono dalle orbite, il sangue sovraccarica il cervello, la vista si appanna, l’udito si ovatta, le gambe tremolano, lo devono dire, la spinta è troppo forte, non possono farne a meno. “Io cani ce li ho sempre avuti, devi essere il capo branco”. E via, anni di studi andati in frantumi, la tua credibilità brutalmente calpestata e ti chiedi cosa hai sbagliato nella vita, perché sicuramente da qualche parte hai fatto un errore enorme quando hai scelto di fare questo lavoro.

Poi rimane un piccolo, timido, quasi insignificante, 1% che invece ti da forza, ti fa credere che al mondo esistono ancora persone che ragionano con le quali si può avere un confronto magari anche costruttivo, che ti guardano e con una tranquillità sbalorditiva ti chiedono “Che significa lavorare in canile?”.

Merda. Lavorare in canile. E ora come glielo spiego? “Non hai la foto del tuo cane da farmi vedere?”

Lavorare dentro un canile significa avere una grande forza di volontà. Non esistono i giorni festivi, non esiste Pasqua né Natale, che ci siano 40° C che nevichi o che piova. Se sei in turno ti devi svegliare e tendenzialmente devi farlo molto presto perché hai almeno (se stai ancora mantenendo il controllo) tre cani tuoi che supplicato per un po' del tuo tempo e molto probabilmente vivi isolato in mezzo ai monti, a circa 40 minuti di macchina dal canile. L’inverno ti vesti a strati: maglia termica, maglietta di lana, pile a collo alto, felpa, con sopra una felpa e poi un’altra felpa, che uno strato in più non fa mai male. Inizi a lavorare alle 8 di mattina che le mani non si muovono, cominci a dare cibo in quelle ciotole di metallo così fredde che rischi di lasciarci un dito attaccato mentre le porgi ai cani. Poi passa, inizi ad aumentare il passo perché è sempre troppo tardi, inizi a scaldarti, e allora via a toglierti strati e lasciarli in giro. “Avevo una felpa che somigliava molto alla coperta su cui dorme quel cane”, e invece è proprio la tua felpa, di cui quel maledetto cane si è appropriato in modo indebito. E se fanno -4° C, anche se è tutto gelato, anche se l’acqua non vuoi nemmeno berla, i box vanno lavati; e intanto le mani si screpolano, le unghie si consumano, esce un callo nuovo ogni giorno, non capisci più se hai delle mani piene di tagli o dei tagli con sopra un po' di mano. Arriva la sera che diventa complicato anche aprire il portafoglio: “Giuro vorrei pagare signor commerciante, è che non riesco ad utilizzare le mani!”

L’estate non è che vada poi tanto meglio. Qualsiasi cosa tu ti tolga non è mai abbastanza, al punto che ti chiedi se esiste un modo per togliersi la pelle, magari solo con le ossa passa un po' d’aria. Ti svegli la mattina, tempo di attaccare il turno che già non si respira. Pensi sia una fortuna dover lavorare con l’acqua perché così puoi bagnarti, ma nemmeno il tempo di rovesciarti un secchio sulla testa che sei asciutta. Il sole brucia e inizi ad abbronzarti nel modo più brutto del mondo. Da metà coscia al ginocchio, perché il pudore vuole che tu porti dei pantaloncini e la necessità che metta degli stivali alti; dalle dita a metà braccio, un bel girocollo e giusto un filo di pancia, perché se sei donna il pudore impone anche che tu abbia un pezzo di stoffa che almeno somigli ad una maglietta. E via a correre e sudare, muovere cani e sudare, pulire cacche e sudare, parlare e sudare, mangiare e sudare, vivere e sudare.

Capita che cerchi di capire se qualcuno ti abbia obbligato a fare questo lavoro; potresti fare mille cose, magari lavorare in un ufficio con un climatizzatore e con su degli abiti che ti permettano di andare al supermercato senza crearti intorno un raggio di 2 metri (noi siamo degli avanguardisti del distanziamento sociale). Ma nulla. Sei stato così sprovveduto da aver scelto di trasferirti lontano da casa (perché si, non si spiega, ma se sei un educatore e lavori in un canile, spesso sei anche molto lontano da casa tua) per fare quello che dici sia il lavoro dei tuoi sogni.

Che sogni bizzarri, gente.

Ma allora cosa c’è che ti spinge? Qual è il motore che fa girare l’ingranaggio? Qual è la motivazione che ti porta ad alzarti ogni mattina, stamparti un bel sorriso in faccia ed essere felice di andare a fare un lavoro così tanto faticoso?

È un anno ormai che me lo chiedo, e trovare una risposta per me non è facile.

Se qualcuno mi chiedesse perché lo faccio, ovviamente risponderei per i cani.

Li dentro non ci sono “angeli con la coda” e vi assicuro che non “li prenderei tutti”. Ci sono cani anche molto pericolosi con i quali, in un modo o nell’altro, devi rapportarti ogni giorno. Ci sono cani con storie che possono far paura ma che vogliono riscattarsi e desiderano solo che qualcuno si renda conto di chi sono, e ci sono cani che sono stanchi di provarci, che non vogliono cambiare perché costa troppo e la vita gli ha già chiesto abbastanza. Ci sono cani che passano per caso e velocemente trovano un luogo migliore in cui vivere, altri che passano per caso ma ci rimangono decisamente per troppo. Ci sono anche anime ferite nel profondo, vissuti nei quali qualcosa è andato storto. C’è la storia di un’evoluzione nel rapporto cane-uomo che da qualche parte ha decisamente fallito.

Li dentro ci sono esseri viventi fatti di emozioni, di vissuti e di sentiti che però non sono mai stati ascoltati. Ci sono storie di rinunce, storie di abbandoni, storie di persone che non hanno voluto lottare abbastanza perché l’egoismo spesse volte è più forte della comprensione dell’altro, è più facile riempire un modulo e pagare un bollettino piuttosto che rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco. Perché la vita con il cane è una relazione imprevedibile: non puoi programmarla, non puoi sapere cosa succederà e troppo spesso si adottano cani senza farsi le giuste domande, senza le dovute accortezze, con una leggerezza spiazzante con la quale si perde tutto il valore della relazione.

La vita in un canile è scandita da orari, da ritmi incessanti, dal ripetersi costante di un ritmo sonno-veglia che non permette mai di riposare davvero.

Ogni giorno giro per quel canile, guardo dentro quei box e penso che vorrei fare di più. Prometto a tutti del tempo che spesso non ho, del tempo che comunque non basta mai.

Quello che mi spinge a non perdere la motivazione forse è proprio la consapevolezza di non riuscire mai a fare abbastanza, ma la voglia costante di voler fare di più, di voler ridare a quei cani la dignità che meritano, di voler concedere loro la possibilità che qualcuno gli ha negato.

E allora un altro giorno inizia con un “buongiorno” pieno di entusiasmo, si descrive con il susseguirsi di procedure che cercano di dare agio e benessere in un luogo in cui manca il senso stesso di queste due parole, e si esaurisce con una “buonanotte” malinconica perché il freddo che io sento mentre lavoro, loro lo sentono tutto il giorno, e il caldo di cui mi lamento perché non respiro, loro lo patiscono per 3 mesi.

Ma in tutto questo non si è soli. Dietro questa grande macchina c’è una squadra. Persone diverse, con storie diverse che le hanno portate a trovarsi nello stesso posto. Colleghi che inspiegabilmente diventano qualcosa di più. Persone con cui confrontarsi, con cui discutere ma con le quali avere una crescita costante, professionale certo ma personale ancora di più. Tutti siamo li per lo stesso motivo, ognuno con le proprie modalità e ognuno con le proprie idee, ma lavoriamo insieme per un obiettivo comune, un obiettivo forse più grande di noi ma nel quale tutti crediamo profondamente. E allora l’inverno non siamo soli a lamentarci per il freddo, e l’estate non siamo soli a sudare per il caldo. Siamo tutti insieme alle 8:00 in quella cucina che ormai è un po' una seconda casa, ci facciamo un caffè, ci diciamo quanto non ci vada di lavorare anche se sappiamo tutti benissimo che non vorremmo essere da nessuna altra parte, e partiamo per cercare di rimediare agli errori che ha commesso qualcun altro ma di cui ci sentiamo profondamente responsabili.

Mi piace pensare che li dentro, nei canili, ci sono i cani che si ribellano, quei cani che lottano per affermare chi sono e non si piegano a delle misere regole sociali. Quei cani che non hanno paura di farti sentire un ringhio se qualcosa non gli va bene, quei cani ai quali non abbiamo niente da insegnare perché hanno capito meglio di noi come gira il mondo e cosa bisogna fare per non esserne travolti.





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